Appunti per una “Filosofia della solitudine, come condizione e come necessità”

 

Quanta confusione, quanto sperdimento nella cacofonica Babele di fine secolo -niente di nuovo? Forse -: chi non partecipa al truculento banchetto dei bassi appetiti della domanda, al vile mercimonio all’insegna del “ Ma sì, importante è esserci e vendersi”, si gioca i nervi e l’esistenza, a siderali distanze, su un crinale sottile che dà la vertigine, dedicato all’elaborazione di una “Filosofia della solitudine, come condizione e come necessità” -, quando avrà riguadagnato il sorriso e la pacificazione ne elaborerà “l’Estetica” - , irresistibilmente vicina, a un passo, da un “Elogio del silenzio”... E’ forse la solita storia sulla morte dell’Arte? No! L’Arte non è mai morta, é morto sempre e soltanto l’artista che questo ha dichiarato. Si, è l’artista che muore, sempre lui muore, dilacerato dalle risposte che non trova.

L’arte no: nella sua immaterialità, è al di qua e al di là della caduca corporeità dell’artista; lo precede, gli s’incarna e gli sopravvive. Come un’essenza, lo pervade, lo commuove e lo agisce. Mero strumento, l’artista veicola, travalica nei secoli, come per trasmissione genetica, la necessità artistica; “Dio vuole l’uomo poeta” dice Alberto Savinio, “... Fin quando contano (Nietzsche) i poeti, il varco dell’ immaginazione - leggi salvezza- resterà praticabile...poiché l’arte è lo spazio autonomo che l’Apparato non potrà annettersi”, così avverte, all’indirizzo di U. Galimberti, E. Scalfari.

Già, ma oggi appunto, non v’è canto che per i sordi, e non v’è silenzio che per gli udenti (pochi)... Canta anche il Papa- per volontà del Signore?- alimentando sordità.

Annichiliscono così i poeti, fagocitati dalla Babele che, d’altra parte, esercita un fascino irresistibile, come sirena ammalia e cattura; non richiede rigore: al frastuono non serve; la purezza è bandita come storia archiviata.

“Viva la contaminazione  - si grida - “ a ciò che altro non è che un flusso limaccioso di un delirio che dilaga. Ma non è, il contaminarsi, un processo degenerativo che precede da presso una patologia che oggi non sappiamo quanto sarà grave domani ? Per quanto ancora sarà possibile ingannarsi con lustrini, sonagliere, specchietti per allodole - allocchi, acquitrini per pennuti starnazzanti e animali gracidanti? Per quanto ancora sarà possibile infagottare impietosamente cervelli ammollati dalla marea montante dell’insipienza, con tenori sguaiati che ambiscono canzonettare e con canzonettari che grottescamente ardiscono tenoreggiare?

Questo dunque, l’odierno quadro desolante che si offre alla vista, al di sopra delle rovine delle ossute elaborazioni teoriche, di una Avanguardia talvolta ottusa, e al di qua delle semplificazioni banalizzanti di certi “Neo”, manifestazioni senili di un secolo che muore....

E oltre non altro se non il desertico orizzonte dell’ascolto che scoraggia lo sguardo e mortifica anche il più ostinato canto...e se non v’è possibilità di canto - se non quello interiore, sublimato nella solitudine- perché non intercetta l’ascolto, non resta che l’ammutolimento.

E’ un errore fatale pensare che a un certo punto l’artista debba adottare un linguaggio “più semplice” per essere compreso; l’artista che lo facesse cadrebbe dall’Empireo per falsa testimonianza. Ma a chi può servire, in fondo, la parola di colui che mente a se stesso? Non è forse l’Opera, nella fase che va dal concepimento alla formulazione compiuta ( quando passa nelle mani dei mercanti, la sostanza non cambia, ma mutano le funzioni, e ciò che segue non è più materia che interessi l’Autore ), il momento fuori dal tempo - dove l’artista è, senza infingimenti -, il luogo specchiante, al di la dello spazio - dove l’artista si moltiplica mille volte, per mille volte interrogarsi, nel tentativo di conoscersi? - Non è l’Opera (che non conosce contaminazioni, né condizionamenti) l’inverarsi purificato di un tutto armonico - dimostrabile, ma non dicibile – di astratte proporzioni di contenuto e di forma, di intuizione, ragione e spirituale  necessità? Non v’è arte senza libertà poiché è solo la libertà che la genera.

E’ necessità imprescindibile dunque, che l’artista stia a distanza cautelativa, nella solitudine riflessiva, nel silenzio contemplativo. E’ questa l’Utopia (il non luogo) dove il seme dell’arte conosce il tepore amorevole della coltura, il furore dell’atto creativo.

Non hanno bisogno di distanze, di solitudine e di silenzio gli aridi (di troppe contiguità d’Apparato, di troppa coralità e chiasso hanno goduto), non se ne ammantino in nome di un’artisticità che non gli appartiene. Ma fatalmente, non gli appartiene nemmeno il dubbio: essi, infatti, parlano con foga il loro mutismo e cantano stonati la loro afonia, ingombrando lo spazio della loro inconsistenza e trascinando, come banderuole, le inerzie.

 

 

 

Rocco Abate

Cima Ventosa, marzo 1999

 

 

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